Seventy Times Seven è il nuovo libro di Alex Mar che racconta una storia vera: la condanna a morte di Paula Cooper. Si tratta di una storia portata alla ribalta dalla stampa italiana, che intreccia tre sentimenti dominanti: pietà, perdono e compassione quella di Paula Cooper, nera, che aveva quindici anni quando, nel 1985, è stata condannata alla pena capitale. Era – oltre ogni ragionevole dubbio – colpevole di aver aggredito e ucciso la catechista Ruth Pelke, bianca. La giustizia, che per le leggi dello stato dell’Indiana prevedeva la possibilità di essere condannati a morte a partire dai dieci anni di età, non le riconosceva nessuna attenuante. Solo la compassione avrebbe potuto salvarla. “Quando la scrittrice Alex Mar, nel 2023, si è avvicinata alla storia di Cooper per scrivere il suo Settanta volte sette, lo ha fatto con lo spirito di chi cerca un granello di luminosa speranza nel tenebroso abisso dell’incomprensione, in un sistema secondo il quale uccidere è lecito, ma solo per vendetta. Ne è uscita con una storia eccezionale, dove, paradossalmente, solo i familiari della vittima si sono trovati a lottare, con cristiana devozione, per la vita della ragazza, quasi una bambina, la più giovane condannata a morte nella storia d’America”. Incontrata ed intervistata per “La Stampa” da Giulio D’Antona, Alex Mar è andata più a fondo.
Alex Mar, esiste il perdono, nella giustizia costituita?
«In qualche caso, sì. Ciò che più mi ha colpito della vicenda di Paula Cooper è che il nipote della vittima si sia battuto per risparmiarle l’esecuzione. Volevo capire in che modo avesse superato il desiderio di vendetta per arrivare al perdono».
Ha rinunciato a un diritto?
«No, ha rinunciato ad assoggettarsi a un sistema la cui legge prevede che il colpevole debba sempre in qualche modo rimborsare la parte lesa. Una vita per una vita. Pelke ha rinunciato a questo principio».
Perché?
«Ne ha visto la fallacia. Come l’ho vista io e come è evidente a chiunque sia in grado di superare il materialismo in una questione complessa come quella della giustizia terrena».
La giustizia divina è più semplice?
«In linea teorica, sì. Poi, ovviamente non è sempre legalmente applicabile. Ma in casi come questo – e nell’esistenza stessa della pena di morte – è la legge a sbagliare, non gli uomini».
Ma la legge dovrebbe essere l’espressione del volere della collettività…
«Ed è per questo che molti americani non si sentono più rappresentati dalla legge che regola il processo penale, negli Stati Uniti; a partire dall’esistenza della pena di morte, che è un’assurdità, fino al sistema corrotto e rugginoso che dovrebbe assicurare giustizia e reintegrazione, ma che non fa che allontanare persone dalla società finché per loro non è più possibile reintegrarsi».
In che senso?
«Il sistema penale americano prevede la cancellazione del problema: chi sbaglia, viene rimosso dalla comunità per eliminare rischio di errore. Ma chi viene incarcerato non smette di essere parte della società e il fatto di dimenticarsi di questi individui, smettere di garantire loro il diritto allo studio, al lavoro, alla vita comunitaria, non fa che acuire una difficoltà sociale già di per sé enorme».
È un sistema che uccide anche quando non uccide…
«Sì, e nel caso di Paula è piuttosto evidente: la giustizia, e parte della comunità, hanno preferito rimuovere una quindicenne dalla società, e dal mondo, piuttosto che prendere in considerazione le condizioni che l’hanno spinta ad agire: l’alcolismo della madre, la violenza del patrigno, le condizioni precarie nelle quali era cresciuta. La pena di morte, ovviamente, è la massima espressione di questo concetto deviato della giustizia».
E con la fede, cosa ha a che vedere?
«Non molto con il concetto di fede universale, ma molto con l’idea di bene e male insito in certe sue forme. L’America è stata fondata dai puritani, il cui credo si basa sul senso di “male”. Un crimine come quello di Paula è un atto di malvagità, l’espressione fisica del male terreno. Quindi, eliminando lei, si elimina il male dalla terra».
Molto poco cristiano…
«Ci sono tanti modi di essere cristiani: per molti americani la cristianità include il perdono. Per altri, è una giustificazione per le proprie convinzioni, linee di condotta, e intolleranza. È una strana fede, che rifiuta di ammettere che le persone possano cambiare e lo maschera da crociata contro il male».
Le cose sono cambiate dai tempi di Paula?
«Non nel sistema giuridico. Però ormai la maggioranza della popolazione, specialmente i più giovani, non crede più nell’efficacia della giustizia americana. Gli interrogativi si sono moltiplicati: a cosa ha portato l’incarcerazione di massa? Cosa ha risolto la tolleranza zero? E la risposta è sempre la stessa: nulla. Bisogna provare ad adeguare il sistema alla realtà della società civile, impellenza che troppo spesso è assoggettata alle campagne politiche».
La preoccupa?
«Abbiamo ancora la pena di morte. I casi di esecuzioni si erano ridotti gradualmente, ma poi, verso la fine del mandato di Donald Trump sono state giustiziate tredici persone. Una specie di atto di machismo finale, una strizzata d’occhio agli elettori conservatori».
Il futuro è tetro…
«Non lo so. Ma di certo il presente può fare di meglio».